Napoli – Il trovatello Vincenzo Gemito, nacque a Napoli il 18 luglio del 1852. Fu abbandonato neonato alle porte della chiesa dell’Annunziata e fu adottato da una famiglia poverissima. Trascorse la sua infanzia tra stenti e privazioni di ogni genere; la sua casa furono i vicoli stretti della città, costernati solo da una miseria infinita.
All’età di circa dieci anni, iniziò a frequentare lo studio dello scultore Emanuele Caggiano, dove conobbe il pittore Mancini e con lui, qualche anno dopo, si trasferì nello studio di Stanislao Lista, un altro artista di grande fama. Fu un apprendista bravissimo e dimostrò quasi subito un innato talento per l’arte ed in particolare per la scultura.
Il grande interesse per la tridimensionalità, il suo amore per la figura a tutto tondo, gli fecero conquistare ben presto lusinghieri riconoscimenti, tanto che anche il sovrano, in occasione di una sua mostra del 1868 alla Promotrice di Napoli, acquisto una sua scultura in gesso. Nello stesso periodo si dedicò con passione agli studi delle teste, eseguendo i ritratti dei pittori Morelli, Michetti, Petrocelli, Maisonnair e Fortuny.
Il meglio della produzione artistica di Vincenzo Gemito, però, è contenuto nella serie di teste dei bambini: gli scugnizzi, gli orfani, i diseredati, gli abbandonati, i cosiddetti “invisibili” che la società non voleva vedere. Una straordinaria raccolta di opere scultoree, tra le quali vanno ricordate quella di: “Il malatiello” del Museo di Capodimonte, quella della Raccolta Astarita di Napoli e quelle della Galleria d’Arte Moderna di Torino.
Fu questo il momento più alto dell’artista partenopeo, quando la sua sensibilità poté esprimersi liberamente in declinazioni sentimentali particolarmente sensibili al tema dell’infanzia misera e faticosa dei diseredati. Lo scultore approfondì notevolmente le sue ricerche su questi temi, a lui molto cari, passando dalla frammentazione, cioè dalla rappresentazione parziale dei soggetti, a quella delle figure intere, interpretando magistralmente la tecnica del tutto tondo. Opere come il “Pescatoriello”, L’ “Acquaiolo”, “Il Vasaio”, “Nettuno”, rientrano in quella che si può definire la produzione artistica matura di Gemito. Molte sue opere sono esposte oltre che al Museo di Capodimonte e di San Martino, anche all’interno di quella che fu la Real Casa Santa dell’Annunziata e nella Galleria d’Arte Moderna di Roma. Nel 1877 lo scultore si recò a Parigi, attratto dal fascino e dalla fama internazionale che la città si era guadagnata nel mondo artistico ed intellettuale del tempo.
Nella città dove nacque successivamente la Belle Epoque, Vincenzo Gemito rimase per quasi tre anni, ma tranne che per qualche sporadica commissione, la sua permanenza non fu degna di nota. Ritornato a Napoli nel 1880 riprese con grande entusiasmo il lavoro, dimostrando anche un grande interesse per il bronzo e per le tecniche di fusione, tanto da aprire un suo laboratorio di fonderia. Qualche anno dopo, però, iniziò ad aggravarsi lo squilibrio mentale patologico che lo affliggeva fin dalla giovane età, portandolo prima alla follia e successivamente alla morte. Purtroppo anche la sua produzione artistica fu segnata in modo indelebile dalla malattia; in quegli anni si allontanò dalla scultura e per circa un ventennio sparì letteralmente dalla scena artistica italiana. Morì il 1 marzo del 1929, tra la totale indifferenza del mondo artistico partenopeo.